Italia e diritto al lavoro: l’impatto negativo che deriva dalla troppa flessibilità contrattuale e dalle soluzioni inefficaci

Di Emilia Urso Anfuso – Fondatrice e presidente di NoiNazione

I due articoli che inserisco di seguito fanno parte dei diritti fondamentali della Costituzione Italiana:

Art. 1

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.

La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Art. 4

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

A fronte di quanto, ancora oggi, è scritto nei due articoli appena esposti, si dovrebbe riflettere collettivamente sulla realtà dei fatti in tema di diritto al lavoro in un paese come l’Italia.

Per comprendere meglio la situazione e da cosa derivino certe criticità che sono fonte di criticità per i contribuenti italiani che non riescono, ormai da anni, a trovare stabilità lavorativa e quindi, una garanzia di diritti civili e di futuro, è necessario fare un passo indietro nel tempo, quando sulla Gazzetta Ufficiale del 9 Ottobre del 2003 fu pubblicata la ormai famosa Riforma Biagi, dal nome del suo promotore, Marco Biagi.

La legge di riferimento è la 30/2003 e nelle intenzioni di chi ne sostenne il contenuto, vi era la convinzione che creare una moltitudine di contratti atipici fosse la soluzione alla crisi del mercato del lavoro.

Le basi della riforma Biagi

Ecco cosa si legge nella presentazione della riforma Biagi:

La nuova normativa ha l’obiettivo di rendere più flessibile il mercato del lavoro, migliorandone l’efficienza e sostenendo politiche attive per il lavoro e favorendo la diminuzione del tasso di disoccupazione.

Fra le novità introdotte si segnala:

  • un nuovo regime autorizzatorio e di accreditamento degli operatori pubblici e privati nonché la ridefinizione della borsa continua del lavoro;
  • l’introduzione della tipologie contrattuali della somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, l’appalto di servizi, contratto a orario modulato, contratto a tempo parziale, lavoro ripartito e intermittente;
  • un nuovo ruolo per il contratto di apprendistato, che diventerà il principale canale di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro in stretta coerenza con la riforma del sistema educativo con l’introduzione di un monte minimo di ore dedicate alla formazione “formale”, che si potrà essere svolta all’esterno come all’interno della azienda;
  • l’introduzione del contratto di inserimento, che sostituisce il contratto di formazione e lavoro, si rivolge soprattutto alle donne delle aree svantaggiate e ai lavoratori più “anziani”;
  • la riforma delle collaborazioni coordinate e continuative, che dovranno essere riconducibili a uno o piu’ progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione della attivita’ lavorativa (c.d. “lavoro a progetto).

Queste novità in un primo momento sembrarono essere la soluzione più efficace per creare posti di lavoro, ma non si pensò – come avviene troppo spesso in Italia quando si varano riforme – alle ripercussioni sulla vita reale di milioni di lavoratori nel corso del tempo.

Frammentare le tipologie contrattuali e tagliare i diritti fondamentali del lavoratore – negando per esempio il diritto alle ferie e al riconoscimento della malattia o della tredicesima mensilità – fondamentalmente fu l’avvio di un percorso caotico, che non ha creato un maggior numero di posti di lavoro e ha contribuito a fiaccare l’economia di quella classe media che, oggi, è evidentemente in grande affanno.

La riforma Hartz IV e il reddito di cittadinanza: riforme sbagliate

Per spiegare meglio il problema, si può pensare alle devianze contenute all’interno della Riforma Hartz IV tedesca, varata durante il governo a guida del socialdemocratico Gerhard Schröder, che se da un lato sembrò risolvere una serie di questioni urgenti sul tema del lavoro e del diritto a un sostegno economico per i cittadini, dall’altro lato generò un sistema di mini lavoro (di ogni tipo e spesso non adeguato alle competenze maturate dal cittadino) che, col passare del tempo, ha sconfinato in un sistema basato sul sussidio di Stato e non sul diritto al lavoro.

In Italia, fu in qualche modo copiato il sistema della Riforma Hartz IV ai tempi dei 5Stelle al governo e dell’ormai noto sistema del reddito di cittadinanza. Tra gli errori commessi in questo genere di riforma, vi è quello di accomunare il criterio di povertà a quello di ricerca del lavoro. Spiego meglio: possono esistere migliaia di cittadini in cerca di lavoro che NON versano in stato di povertà ma gradirebbero poter trovare una collocazione lavorativa e di tipo stabile.

Riporto, di seguito, l’immagine di un mio articolo pubblicato sul quotidiano Libero che uscì in edicola il 31 Dicembre 2018:

Esistono, ovviamente, milioni di persone e di nuclei familiari che versano, invece, in condizioni economiche talmente gravi da avere necessità di ottenere, con una certa velocità, un sussidio economico ma attenzione: dovrebbe essere chiaro a tutti che si tratta di due situazioni diverse e che corrono in parallelo.

Il 9 Novembre del 2013 fu pubblicato questo mio approfondimento dal titolo Non è vero che la Germania sia migliore dell’Italia

Per facilitare la lettura e per chi desidera scaricare il testo sul proprio PC, inserisco anche la versione in formato .PDF

Da noi, come in qualche modo in Germania, è stato creato caos distruggendo, in una manciata di anni, l’equilibrio persino terminologico tra il criterio di povertà e quello di diritto al lavoro. Un caos infernale che alla fine ha lasciato tutti sconfitti, senza risolvere il problema della povertà e nemmeno quello, ormai radicato, del diritto al lavoro e al lavoro stabile.

La flessibilità crea caos non più posti di lavoro

sullo stato di stress generale che ogni lavoratore ATIPICO (Contratti a tempo determinato, contratti co.co.co, etc) subisce in una nazione, l’Italia, che si è vantata nel corso del tempo di aver creato “FLESSIBILITA

Si tratta di una delle carognate peggiori perpetrate contro la classe davvero dirigente di questo paese, i lavoratori di ogni settore, ordine e grado, che al grido di “la flessibilità crea più posti di lavoro”, ha disintegrato il diritto al lavoro ma più di ogni altra cosa, IL DIRITTO AI DIRITTI FONDAMENTALI DEGLI ESSERI UMANI.

Nessuno mai argomenta su ciò che stressa maggiormente le persone, quelle che lavorano sul serio ma che alla fine, dipendono dalla parola “contratto” associata al termine “rinnovo

E da quel rinnovo dipendono 1.000 cose e più di 1.000: impegni presi, domande che percuotono la mente, senso di crepitio di ogni certezza, del domani, del futuro ignobilmente castrato dalla cosiddetta “flessibilità”

E’ uno dei deliranti motivi di sconfitta di questa nazione, ma ovviamente si deve parlar d’altro, tante volte dovessimo far “peccato” a parlare di ciò che è davvero importante per tutti noi…

Soluzioni e conclusioni

Da anni si dibatte sul tema centrale che alimenta una discussione che, ormai, ha più i contorni di una sorta di perenne propaganda politica elettorale: come risolvere la questione diritto al lavoro.

Ogni tanto, qualcuno fa uscire dal cappello a cilindro un qualche sostegno alle aziende che assumono, ma non sono azioni risolutive, dal momento che sono contributi economici o sostegni fiscali che hanno una scadenza, giunta al quale ecco che i lavoratori sono accompagnati, spesso, alla porta senza troppi complimenti.

Non è con contributi instabili alle aziende che si crea stabilità lavorativa. Si dovrebbe, semmai, creare una riforma che stabilizzi i contributi alle aziende e ai professionisti che assumono con contratti a tempo determinato o indeterminato e non solo parlando di giovani ma anche di adulti e di over 50 e 60 che, spesso, hanno maturato competenze tali da far risparmiare il datore di lavoro non solo in campo economico quanto in tema di minore perdita di tempo, perché una risorsa umana già formata fa, effettivamente, perdere meno tempo e denaro.

Evidentemente, però, il sistema attuale trova maggiormente vantaggioso un mercato del lavoro basato sul turn over, sulla formazione continua di nuove risorse che, spesso, non restano alle dipendenze della stessa azienda e sul marasma di contratti e contrattini che non permettono la programmazione di un futuro. Attenzione, perché qui non si parla solo del futuro dei singoli italiani bensì del paese.

Se non si può programmare il futuro dei singoli individui, non può esistere futuro per il paese intero.

Urge l’apertura di un sano dibattito su questi argomenti, dibattito che lancio attraverso questo approfondimento su cui attendo le vostre riflessioni e idee, nei commenti, via mail o sul mio profilo su X (Twitter)

***Immagine di copertina da: https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Livorno,_palazzo_del_governo,_fregio_con_la_storia_cittadina,_1950-56_circa,_11_vittorio_veneto_e_aggiunta_repubblicana.jpg

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